ISSN 1974-4455 (codice International Standard Serial Number attribuito il 7 marzo 2008) | Info: foglidarte@gmail.com

lunedì 30 aprile 2012

Londra, il globo al «Globe». Per Shakespeare

Trentotto spettacoli in trentotto lingue per celebrare il compleanno di uno dei più grandi drammaturghi di tutti i tempi: William Shakespeare. Accade a Londra, dove va in scena la prima edizione di «Globe to globe», una maratona di teatro, lunga sei settimane, che vedrà calcare le assi del palcoscenico oltre seicento attori, provenienti da cinque continenti.
Dalla danza maori al linguaggio dei segni, dall’hip-hop al cinese mandarino, passando per l’irdu e l’hindi: si prospetta come un vero e proprio bagno enciclopedico e multi-linguistico nell’opera del «grande Bardo» quello che propongono Tom Bird e lo scrittore e direttore di teatri Dominic Dromgoole con questo imponente e ambizioso progetto, parte integrante del «World Shakespeare Festival», una serie di eventi che proseguirà fino a lunedì 12 novembre, con appuntamenti in tutta la Gran Bretagna.
Scenario della rassegna, in programma fino a mercoledì 9 giugno, sarà il leggendario Globe Theatre, replica dell’antico teatro elisabettiano sulla riva destra del Tamigi (oggi a pochi passi dalla Tate Modern), nel quale recitavano i «Lord Chamberlain's Men», la compagnia guidata da Richard Burbage, della quale faceva parte anche l’autore di Stratford-upon-Avon.
Ad aprire il sipario di questa affascinante struttura in legno di quercia, con la volta stellata a fare da tetto, è stata, sabato 21 aprile, la compagnia «Isango Ensemble», proveniente da Città del Capo, con lo spettacolo «Venus & Adonis - U-Venas no Adonisi», grande storia di seduzione e di perdita di innocenza, raccontata attraverso i colori e i ritmi tipici della cultura africana. Ma l’appuntamento già andato in scena che ha fatto più discutere la stampa di tutto il mondo è stata, senza ombra di dubbio, la tragedia «Troilo e Cressida» della compagnia neozelandese «Ngakau Toa», prima traduzione integrale di un’opera shakespeariana in lingua maori, iniziata con una haka, la danza guerriera resa celebre in tutto il mondo dalla nazionale neozelandese di rugby. La rappresentazione si è tenuta lunedì 23 aprile, giorno nel quale, tradizionalmente, si festeggia il compleanno dello scrittore elisabettiano.
Questa settimana è stata, invece, la volta de «La dodicesima notte» in indiano, del «Pericle» in greco, di «Misura per misura» in russo, de «Le allegre comari di Windsor» in swahili, e del «Riccardo III» in cinese mandarino, appuntamento, quest’ultimo, che ha visto recitare l’attesissimo «National Theatre of China», proveniente da Pechino. Molto atteso a Londra anche il ritorno del regista lituano Eimuntas Nekrosius alla direzione dell’«Amleto», con i «Meno Fortas». Mentre per assistere a uno spettacolo in lingua italiana bisognerà attendere martedì 1° e mercoledì 2 maggio, quando «I Termini» di Roma (compagnia nata nel gennaio 2002 in seno all'Accademia nazionale d'arte drammatica «Silvio D'Amico») porteranno in scena una versione contemporanea del «Giulio Cesare», per l'adattamento di Vincenzo Manna e con la regia di Andrea Baracco.
Al festival «Globe to globe» ci sarà spazio anche per lo Stato più giovane del mondo, il Sud Sudan (indipendente dal luglio del 2011, dopo oltre cinquant’anni di lotta violenta). La ‘compagnia di casa’ porterà in scena la tragedia «Cimbellino», tradotta in arabo juba dal regista Joseph Abuk e allestita con costumi delle tribù locali che abitano il Paese. Mentre da Kabul arriverà la compagnia «Roy-e-Sabd», per la prima volta fuori dai confini nazionali, con «La commedia degli errori» in lingua dari, il persiano che si parla in Afghanistan.
Tra i grandi classici shakespeariani non mancheranno il «Re Lear» in bielorusso, «Antonio e Cleopatra» in turco, «La bisbetica domata» in urdu, «Molto rumore per nulla» in francese, «Enrico VIII» in castigliano, «Macbeth» in polacco, «Tito Andronico» in cinese cantonese, «La tempesta» in bengalese e un singolare «Romeo e Giulietta» nella rivisitazione in portoghese della compagnia «Grupo Galpão», che porterà in scena un vivace mix di circo, musica, danza e cultura brasiliana.
Curioso sarà anche l’«Otello», in lingua inglese, della compagnia «Q brothers» di Chicago, che farà incontrare il dramma shakespeariano della gelosia con il linguaggio fresco e urbano dell’hip-hop.
Le opere del «cigno di Avon» saranno narrate anche attraverso il linguaggio dei segni, con lo spettacolo «Pene d’amore perduto», portato sul palco dal «Deafinitely Theatre» di Londra, e per mezzo della lingua ebraica, con «Il mercante di Venezia», dramma noto per il monologo dell'ebreo Shylock contro l'antisemitismo e il razzismo, che vedrà in scena l’«Habima National Theatre» di Tel Aviv, riconosciuto dal 1958 come compagnia dello Stato di Israele.
Al Globe Theatre l’«Enrico IV», il lavoro dal quale ha avuto origine il «Falstaff» verdiano, si sdoppierà e parlerà in spagnolo, grazie a due compagnie provenienti dal Sud America, la «Compañia Nacional de Teatro» di Città del Messico e la «Elkafka Espacio Teatral» di Buenos Aires. Mentre l'«Enrico VI», storia della prima grande guerra civile inglese, si farà in tre e diventerà balcanico, parlando serbo, albanese e macedone grazie alle interpretazioni del «National Theatre» di Belgrado, del «National Theatre of Albania» di Tirana e del «National Theatre of Bitola».
Il gran finale spetterà alla compagnia di casa, quella del Globe, che porterà in scena il «Riccardo V», dramma storico dal quale è tratto anche il claim della prima edizione del festival londinese: «O for a muse of fire», un invito a viaggiare sulle ali della fantasia. Un invito che «Globe to globe» declinerà in tutte le lingue del mondo, riportando commedie, drammi e tragedie che da quattro secoli e mezzo affascinano culture tra le più disparate, nel luogo in cui tutto ebbe inizio.

 Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Interno del Globe Theatre di Londra; [fig. 2] Una scena dello spettacolo «Venus & Adonis - U-Venas no Adonisi», con la compagnia «Isango Ensemble» di Città del Capo, Sudafrica; [fig. 3] Una scena dell’«Enrico VIII» con la compagnia «Rakatà» di Madrid, Spagna; [fig. 4] Una scena tragedia «Troilo e Cressida» con compagnia «Ngakau Toa», Nuova Zelanda; [fig. 5] Una scena dello spettacolo, «Pene d’amore perduto», portato sul palco dal «Deafinitely Theatre» di Londra e rappresentato con il linguaggio dei segni


 Informazioni utili 
«Globe to globe». Shakespeare's Globe, 21 New Globe Walk - Bankside London SE1 9DT - Londra, Regno Unito. Ingresso: £ 5,00 per i posti in piedi, da £ 10,00 a £ 35 in galleria. Sito internet: http://globetoglobe.shakespearesglobe.com/. Fino al 9 giugno 2012.

domenica 29 aprile 2012

Cucina e teatro, in scena otto spettacoli «da gustare»

Nell’autunno del 1989, Paola Berselli e Stefano Pasquini decidono di dare una svolta alla propria vita. Lasciano Bologna, la città nella quale vivono e dove lavorano nella compagnia «Il baule dei suoni», per trasferirsi alle Ariette, un piccolo podere sull’Appenino bolognese. In questa valle, nei pressi di Castello di Serravalle, la coppia trasforma la vecchia tenuta di famiglia in un agriturismo. Coltiva i tre ettari e mezzo di terra che circondano la casa. Alleva polli, oche e galline. La passione per il palcoscenico, come tutti gli amori non fugaci, torna a farsi sentire. Il richiamo a raccontare e a raccontarsi bussa imperioso alla porta del cuore. Paola e Stefano decidono di ascoltare quella voce e ripensano, così, al loro modo di rapportarsi all’arte scenica. Nel 1996 sono pronti per iniziare una nuova avventura: nasce il Teatro delle Ariette, una compagnia che mescola, nei propri spettacoli, autobiografia e riferimenti alla vita contadina, e che porta i propri lavori nei luoghi della quotidianità, dalle scuole agli ospedali, dalle piazze alle case.
«Teatro da mangiare?», che vede in scena anche l’amico Maurizio Ferraresi, può essere considerato la summa della poetica dell’associazione emiliana: seduti attorno a una tavola imbandita, gli spettatori-commensali (mai più di una trentina per volta) ascoltano il racconto di un percorso artistico e umano, quello di Stefano, Paola e Maurizio. Ma partecipano anche al rito domestico di preparazione di una vera e propria cena, da consumare tutti insieme al termine della serata. Tagliatelle fatte in casa, tigelle, vino e prodotti rigorosamente biologici non mancano mai in questa curiosa performance, tra mattarelli da cucina e vecchie canzoni, del quale ha scritto anche il quotidiano francese «Le Monde».
Lo spettacolo, giunto a oltre cinquecento repliche, approda a Milano, negli spazi dell’ex ospedale psichiatrico «Paolo Pini», in occasione di «Expo Days. Il mondo a tavola», calendario di oltre ottanta eventi, tra rassegne cinematografiche, mostre, convegni e laboratori per bambini, promosso e organizzato dal Comune di Milano in vista dell’Expo 2015,  incentrato sul tema «Nutrire il pianeta, energia per la vita».
L’appuntamento con il Teatro delle Ariette, in programma fino a lunedì 30 aprile (alle 12.00 e alle 20.00, previa prenotazione al numero 02.66200646 o all’indirizzo e-mail olinda@olinda.org) inaugura il cartellone teatrale della rassegna: otto gli spettacoli in programma, che vogliono puntare i riflettori sulle contaminazioni tra il linguaggio della scena e l’arte gastronomica.
Dopo aver sperimentato il piacere antico del convivio con «Teatro da mangiare?», sarà la volta dell’impegno civile con «Mafie in pentola. Libera Terra, il sapore di una sfida», in programma nella serata di lunedì 30 aprile al Piccolo Teatro Studio (ingresso libero, fino a esaurimento dei posti disponibili). L’attrice Tiziana Di Masi porterà in scena, con un’interpretazione capace di sfumare dal drammatico al brillante, l’esito dell’inchiesta giornalistica condotta da Andrea Gruolo, premio Cronista dell’anno 2011, sui terreni confiscati alle mafie in Sicilia, Calabria, Puglia, Campania e anche nel nord Italia. Terreni, questi, che sono ritornati a nuova vita grazie al lavoro delle cooperative di «Libera Terra», un progetto di don Luigi Ciotti nato nel 1995, che ha il «sapore della legalità», che ha il gusto, buono e onesto, di olio, vino, miele, pasta, taralli, legumi, limoncello e torrone, prodotti che, a fine spettacolo, il pubblico potrà anche assaggiare, salendo sul palcoscenico.
Dalla proposta gastronomico-civile di Tiziana Di Masi, all’insegna del meglio della cucina italiana, si passerà ai mille sapori del tè con «Assaggi d’Oriente», una degustazione promossa da Barbara Sighieri prima dello spettacolo «Incendi» dell'artista libano-canadese Wajdi Mouawad, in programma presso il Teatro i. Nella stessa serata, giovedì 3 maggio, l’attrice Elena Guerrieri porterà in scena, negli spazi del ex ospedale psichiatrico «Paolo Pini», il suo «Orti insorti. In giardino con Pasolini, Calvino e il mi’ nonno contadino in Maremma» (prenotazione obbligatoria al numero 02.66200646 o all’indirizzo e-mail olinda@olinda.org), un monologo «con musica dal vivo e minestrone» che affronta, grazie a una brillante interpretazione in bilico tra serietà e ironia, temi legati all’ambiente, all’agricoltura biologica, alla biodiversità, alla vecchia civiltà contadina. L’ingresso, fissato alle 20.30, è a baratto: per entrare sarà sufficiente portare con sé un prodotto della terra o degli animali; olio, vino, formaggio, miele, marmellata o frutta al posto dei soldi, come avveniva una volta, perché dai nonni, in tempi di crisi economica, c’è sempre da imparare.
Due le proposte in cartellone anche nella giornata successiva, venerdì 4 maggio. Al Museo del Novecento, Valeria Magli presenterà «Mille modi di cucinare la signorina Richmond», una performance nella quale il corpo gioca con il testo tratto da un manuale di cucina. Tre le repliche in programma, a partire dalle 18, ogni ora e mezza (ingresso libero, fino a esaurimento dei posti). Alle 22.30 ci si sposterà, invece, all’Arci Cicco Simonetta, dove andrà in scena «TeatriFood. Improvvisazione con sapore», uno spettacolo nel quale attori e pubblico compiranno un viaggio all’insegna di gusti, profumi e emozioni che ruotano intorno a una tavola imbandita (ingresso: € 3,00, con tessera Arci).
Dalle suggestioni della cucina si passerà, quindi, al suo lessico con «Le parole del cibo», spettacolo in cartellone sabato 5 e domenica 6 maggio, alle 20, presso gli spazi del teatro Arsenale. Una performance, questa, ricca di azione, umorismo, dinamicità e informazioni culinarie, che trae spunto da alcune pagine significative della letteratura a tema gastronomico come la «Lettera del chiarissimo poeta Lorenzo Stecchetti a Pellegrino Artusi, la ricetta del «Risotto patrio» di Carlo Emilio Gadda e «Le seppie coi piselli» di Achille Campanile.
Il gran finale spetterà allo spettacolo «Pranzo d’artista. Quando si incontrano misericordia e libertà», lettura scenica del racconto «Il pranzo di Babette» di Karen Blixen, a cura del Teatro Alkaest, in programma domenica 6 maggio, alle 12.30, presso una residenza privata di Milano (prenotazione obbligatoria al numero 331.4129098 o alla e-mail stanze@teatroalkaest.it). Otto spettacoli, dunque, diversissimi tra loro quelli di «Expo Days. Il mondo a tavola». Otto spettacoli golosi, che focalizzano l’attenzione ora sull’impegno civile, ora sul piacere della convivialità, ora sulla nostra storia gastronomica, con qualche rimpianto per il passato che non ritorna. Ed è proprio il caso di dirlo: a Milano, questo maggio, ce ne sarà per tutti i gusti.

Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Una scena dello spettacolo «Teatro da mangiare?», con il Teatro delle Ariette. Foto di Paolo Rapalino; [fig. 2 e 3] Una scena dello spettacolo «Teatro da mangiare?», con il Teatro delle Ariette. Foto di Marco Caselli; [fig. 4 e 5] Una scena dello spettacolo «Mafie in pentola. Libera Terra, il sapore di una sfida», con Tiziana Di Masi; [fig. 6 e 7] Una scena dello spettacolo «Orti insorti. In giardino con Pasolini, Calvino e il mi’ nonno contadino in Maremma», con Elena Guerrieri. 


 Informazioni utili 
 «Expo Days. Il mondo a tavola». Rassegna teatrale. Milano, sedi varie. Programma: www.expo2015.org/sites/default/files/rich_text_editor/pagine_standard/flyer_dgt_o.pdf. Fino a domenica 6 maggio 2012. 
Cartellone
- domenica 29 e lunedì 30 aprile, ore 12.00 e ore 20.00 / TeatroLaCucina, ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini (via Ippocrate, 45) / «Teatro da Mangiare?», con il Teatro della Ariette / prenotazione obbligatoria allo 02.66200646 o alla e-mail olinda@olinda.org;- 
- lunedì 30 aprile, ore 20.30 / Piccolo Teatro Studio (via Rivoli, 6) / «Mafie in pentola», di Andrea Guolo, con Tiziana Di Masi / ingresso libero fino a esaurimento posti / informazioni: mafieinpentola@gmail.com;
- giovedì 3 maggio, ore 19.00 / Teatro i (via Gaudenzio Ferrari, 11) / «Assaggi d'Oriente» /prenotazione obbligatoria al numero 366.3700770, allo 02.8323156 (dalle ore 14.30 alle 19.30) o alla e-mail: info@teatroi.org;
- giovedì 3 maggio, ore 20.30 / TeatroLaCucina, ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini (via Ippocrate, 45) / «Orti insorti. In giardino con Pasolini, Calvino e il mi’ nonno contadino in Maremma», con Elena Guerrieri, all’organetto Davide Orlando / prenotazione obbligatoria allo 02.66200646 o alla mail olinda@olinda.org / ingresso a baratto;
- venerdì 4 maggio, ore 18.00, 18.30, 19.00 / Museo del Novecento, Sala Fontana, piazza Duomo / «Mille modi di cucinare la signorina Richmond»,con Valeria Magli / ingresso libero fino a esaurimento posti / informazioni: vagastudio@gmail.com;
- venerdì 4 maggio, ore 22.30 / Arci Cicco Simonetta (via Cicco Simonetta, 16) / «TeatriFood. Improvvisazione con sapore», con Teatribù / ingresso con tessera Arci + € 3,00 / informazioni: info@teatribu.it;
- sabato 5 e domenica 6 maggio, ore 20.00 / Teatro Arsenale (via Cesare Correnti, 11) / «Le parole del cibo»/ingresso: € 5,00 / informazioni: teatro@teatroarsenale.it;
- domenica 6 maggio, ore 12.30 / residenza privata (la casa in cui si svolgerà lo spettacolo verrà comunicata al momento della prenotazione) / «Pranzo d’artista. Quando si incontrano misericordia e libertà», con il Teatro Alkaest / prenotazione obbligatoria al 331.4129098 o alla e mail stanze@teatroalkaest.it

venerdì 27 aprile 2012

Londra, il Van Dyck siciliano alla Dulwich Picture Gallery

E' l'ottobre del 1621 quando il ventiduenne Anton Van Dyck (Anversa, 1599 – Londra, 1641) parte per l'Italia, tappa obbligata nel processo formativo del bagaglio culturale e figurativo dei pittori fiamminghi. Un mese dopo, il 20 novembre, il giovane allievo di Peter Paul Rubens è a Genova, presso la casa dei fratelli Lucas e Corneil de Wael, artisti e mecenati di Anversa, stabilitisi nella città ligure dal 1610.
Qui -secondo quanto raccontano Pietro Giovanni Bellori e Raffaele Soprani- il pittore rimane fino al febbraio del 1622, quando si imbarca su una feluca alla volta di Civitavecchia per, poi, giungere a Roma, dove studia l'arte classica e dove medita sulla pittura di Raffaello, Annibale Carracci e Guercino. A questo periodo risale anche la realizzazione di un incredibile numero di schizzi ispirati ai lavori di Tiziano, nume tutelare di Anton Van Dyck, come documenta il «Taccuino Italiano» (oggi di proprietà del British Museum di Londra), nel quale sono raccolte copie di «Amor sacro e Amor Profano» (1514 ca.) e di «Venere che benda Amore» (1565).
Lasciata la «Città eterna», l’artista fiammingo -chiamato dai contemporanei «pittor cavalleresco» per i modi raffinati e per l'abbigliamento elegante- decide di trasferirsi a Venezia, dove rimane per due mesi, a partire dall'agosto del 1622. E' in Laguna che avviene la sua scoperta del colorito soffuso di Paolo Veronese, della luce del Giorgione e dell'intensità narrativa di Tintoretto, stili pittorici che ritroviamo filtrati in tanti dipinti degli anni successivi.
Ma il giovane artista che avrebbe regalato alla storia dell’arte opere come «Le età dell’uomo» (1625 circa; Vicenza, Museo civico d’arte e storia), «Gli amori di Amarilli e Mirtillo» (1631-1632 ca.; Torino, Galleria Sabauda) e «Amore e psiche» (1638-1640; Londra, The Royal Collection) non è ancora completamente soddisfatto della sua formazione; vuole approfondire tutta l'arte italiana e visita così anche Mantova, Milano, Torino, Firenze e Bologna, per poi rifare tappa a Roma, nella primavera del 1623, e ritornare a Genova, verso la fine dello stesso anno. La «Superba» diventa la sua città adottiva fino al ritorno in patria, avvenuto nel 1627, fatta eccezione per un viaggio a Palermo, risalente al biennio 1624-1625, che permette ad Anton Van Dyck di conoscere la leggendaria Sofonisba Anguissola, all'epoca più che novantenne e quasi cieca. Da lei l’artista, allora venticinquenne, ottiene «tanti buoni consigli» per il suo lavoro, come quello di non usare la luce dall'alto nei ritratti di anziani, al fine di non esaltarne troppo le rughe. Un segreto, questo, che raffina ulteriormente l'arte del «pittor cavalleresco», un'arte che il viaggio in Italia ha certamente reso più soffusa, luminosa, lirica e ricca di pathos. Lo documentano bene i due ritratti della pittrice cremonese, sposa in seconde nozze al genovese Orazio Lomellino, realizzati dall’artista durante il suo soggiorno siciliano (uno, quello dipinto sul letto di morte, fa parte delle collezioni della Galleria Sabauda di Torino), ma anche il quaderno degli schizzi, il famoso «Taccuino italiano», che al suo interno conserva un piccolo disegno a mezza figura della donna.
Alla permanenza nella città di Palermo -dove, secondo la biografia settecentesca basata sull’epistolario De Wael-Van Uffel, l’artista giunse su invito del viceré Emanuele Filiberto di Savoia- è dedicata la piccola, ma preziosa mostra «Van Dyck in Sicily: 1624-1625, painting and the plague», allestita negli spazi della Dulwich Picture Gallery di Londra, per la curatela di Xavier Salamon, oggi conservatore della pittura barocca europea al Metropolitan Museum di New York, e promossa nell’ambito dell’iniziativa «Rediscovering Old Masters», generosamente supportata da Arturo e Holly Melosi.
L’esposizione, corredata da un catalogo in lingua inglese di Silvana editoriale, prende come punto di avvio proprio il «Ritratto di Emanuele Filiberto, principe di Savoia», opera ospitata in permanenza dal museo inglese, che rappresenta senz’altro uno dei vertici della mirabile collezione ritrattistica vandychiana: una carrellata di volti e di sguardi difficili da dimenticare, tutti accomunati da una straordinaria padronanza tecnica, da un'attenzione maniacale ai particolari e da una non comune abilità nel delineare la psicologia del personaggio.
Il viceré, in Sicilia per conto del sovrano spagnolo Filippo IV, appare in questa tela nobile e deciso, marziale ed elegante. Lo sguardo e il portamento hanno tutta l’autorevolezza che conviene a un uomo di governo; questa caratteristica è sottolineata dalla spada e dall’elmo piumato ai due lati, ma soprattutto dall’abbigliamento: una splendida armatura da parata, nera e decorata con i simboli di casa Savoia. Un’armatura preziosa, questa, realizzata dal Maestro del Castello di Tre Torri e in mostra per la prima volta nel Regno Unito, accanto al dipinto di Van Dyck, grazie al prestito delle Armerie del Palazzo Reale di Madrid.
 Al quadro -esposto nel museo londinese accanto a un’altra quindicina di lavori, disposti elegantemente in tre sale- è legato un curioso aneddoto: sembra che una mattina Emanuele Filiberto avesse trovato la tela caduta a terra e avesse considerato questo fatto un pessimo presagio. Gli eventi gli avrebbero dato ragione. Poche settimane dopo, una violenta epidemia di peste, portata da una nave proveniente da Tunisi, devasta Palermo. Tra le decine di migliaia di vittime, c’è anche il viceré spagnolo. La città viene messa in quarantena per quattro mesi. Il viaggio del pittore fiammingo, che originariamente doveva essere breve, si protrae nel tempo e dura in tutto un anno e mezzo.
Si ipotizza, stando a quanto scrive Roberta D’Adda, che l’artista abbia trascorso le settimane del contagio a Messina, ospite del mercante Ettore Vanachtoven, per poi ritornare a Palermo, dove riprende a dipingere ritratti dell’aristocrazia mercantile genovese residente in città, opere sacre come il «San Giovanni Battista nel deserto» (giunto a Londra dalla Menil Collection di Houston) e immagini di Sofonisba Anguissola (in mostra è esposto il ritratto, da altri solo attribuito, della collezione di Lord Sackville).
Durante il soggiorno a Palermo Anton Van Dyck inventa anche l'iconografia di Santa Rosalia, che conosciamo oggi: l’immagine di una donna, giovane e bella, dai lunghi capelli d’oro, vestita con un saio e con lo sguardo rivolto al cielo.
Secondo la tradizione storica, mentre la peste infuriava in città, in una grotta del Monte Pellegrino furono ritrovate le presunte spoglie mortali dell’eremita; poco dopo le reliquie della santa, oggi patrona di Palermo, furono portate in processione e l’allarme cominciò a rientrare. La successione degli eventi generò un proliferare di dipinti incentrati sulla sua figura, a partire dal ritratto ufficiale di Vincenzo La Barbera, commissionato dal Senato della città e di solito ubicato nel locale Museo diocesano. Alla Dulwich Picture Gallery, accanto a quest’opera (unica pittura di un altro artista presente in mostra), sono raccolti cinque lavori di Van Dyck (provenienti da New York, Londra, Madrid, Porto Rico e Houston), nei quali la santa appare o mentre intercede per Palermo appestata o nel momento in cui viene trionfalmente sollevata in cielo da una schiera di angeli.
Nell’autunno 1625, con in tasca la committenza per la grande pala «Madonna del Rosario e santi», l’opera sacra più importante del suo periodo italiano, Anton Van Dyck lascia Palermo, portandosi nel cuore la devozione per santa Rosalia e nella testa tutti gli insegnamenti italiani: la lezione di Tiziano, l'impianto disegnativo toscano, le luci di Sofonisba Anguissola, il cromatismo delle scuole veneta ed emiliana rivivono nei suoi lavori, si fondono come in una meravigliosa sinfonia.
Il «Mozart della pittura», come lo definiscono molti manuali scolastici, deve, dunque e forse soprattutto, all’Italia la sua nomina a pittore alla corte di Carlo I, una nomina che lo porta a Londra nella primavera del 1632, per rimanervi per il resto della vita. E', infatti, all'apice della gloria quando, a soli quarantadue anni, l’artista si ammala e muore. Sulla sua lapide, nella cattedrale di Saint Paul, viene celebrata quella capacità «fotografica» di fermare l'attimo fuggente che gli arrise il favore della nobiltà di tutta Europa, con poche parole: «Qui giace Anton Van Dyck che, in vita, ha regalato a molti l'immortalità».


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Anton Van Dyck, «Ritratto di Emanuele Filiberto, principe di Savoia»,1624. Londra, Dulwich Picture Gallery; [fig. 2] Maestro del Castello di Tre Torri, Armatura di Emanuele Filiberto di Savoia, c. 1606. Madrid, Armeria di Palazzo Reale; [fig. 3] Anton Van Dick,  «Ritratto di Sofonisba Anguissola», 1624. Knole, Sackville Collection; [fig. 4] Anton Van Dick, «Santa Rosalia», 1625 ca. Madrid, Museo del Prado; [fig. 5] Anton Van Dick, «Santa Rosalia in gloria», 1624. Huston, Menil Collection



Informazioni utili
«Van Dyck in Sicily: 1624-1625, painting and the plague». Dulwich Picture Gallery, Gallery Road - Dulwich, Londra. Orari: martedì-sabato, 10.00-17.00; domenica 11.00-17.00. Ingresso: £ 10,00 (comprensivo dell’ingresso alla mostra «Ragamala Paintings from India: Poetry, Passion, Song»). Catalogo: Silvana editoriale, Cinisello Balsamo. Informazioni: +44.08.693.5254. Sito web: www.dulwichpicturegallery.org.uk. Fino a venerdì 27 maggio 2012. 

giovedì 26 aprile 2012

Bergamo, restauro in diretta per Luca Giordano

Dalle meravigliose tarsie disegnate da Lorenzo Lotto ai superbi protiri di Giovanni da Campione, dal grande affresco trecentesco dell’«Albero della Vita» alle sculture di Ugo da Campione e Vincenzo Vela, senza dimenticare le pitture di Francesco Bassano, Ciro Ferri, Pietro Liberi, Antonio Zanchi e Nicolò Malinconico. E’ uno scrigno di tesori d’arte la basilica di Santa Maria Maggiore, duomo di Bergamo, costruito, nella splendida cornice della Città alta, tra il XII e il XVIII secolo. Uno scrigno, questo, che, a partire da venerdì 27 aprile 2012, si arricchirà di una nuova gemma preziosa: l’iniziativa «Luca Giordano. Restauro in diretta», un cantiere aperto al pubblico e visibile on-line sul sito www.fondazionemia.it, grazie al quale sarà possibile non solo assistere alla “rinascita” di un capolavoro, ma anche scoprire i segreti del colore e della tecnica di un grande maestro del Barocco.
La tela oggetto dell’intervento conservativo, che vedrà all’opera Antonio Zaccaria, è «Il passaggio del Mar Rosso», un olio di grandi dimensioni (cm 450 x 600) che rappresenta l’unica presenza documentata a Bergamo di Luca Giordano (Napoli 1634-1705), artista al quale si devono cicli di affreschi all'Escalera grande dell’Escorial, nella sagrestia della cattedrale di Toledo, nel monastero di Nostra Signora di Guadalupe, al palazzo Medici Ricciardi di Firenze e alla Certosa di San Martino.
L’opera, datata al 1681, viene realizzata a Napoli e nell’aprile 1862 è a Venezia, presso il mercante Simone Giogalli, intermediario tra l'artista e i committenti. «Per finezza di pittura e per bellissima invenzione del dissegno», stando a quanto scritto nel Libro delle determinazioni della Mia - Congregazione della Misericordia Maggiore di Bergamo (Terminazioni, n.1286, cc.162,178, 182v), la tela suscita profonda ammirazione non solo tra i veneziani, ma anche presso il consiglio della basilica bergamasca, che, per voce di Leandro Basso, fa sapere di essere talmente appagato dal lavoro da aggiungere 100 scudi ai 700 pattuiti. Un premio, questo, nato con l’intento di agevolare le trattative per affidare al pittore napoletano l’esecuzione di altre opere per Santa Maria Maggiore: dieci affreschi per la navata e quattro pitture a olio. Il fitto scambio di corrispondenza, avvenuto tra il 1682 e il 1686, non porta ad alcun risultato e solo nel 1691, quando Luca Giordano è in procinto di partire per la Spagna, si accetta la presenza a Bergamo di un suo allievo, Nicola Malinconico, che porta il lavoro a compimento nel 1694.
«Il passaggio del Mar Rosso» rimane così l’unica opera bergamasca del maestro della «Maddalena penitente» (1660-1665) e della «Morte di Seneca» (1684), tele conservate rispettivamente al Prado di Madrid e al Louvre di Parigi.
La composizione, che inaugura nel percorso dell’artista il genere delle storie bibliche, è un capolavoro di orchestrazione narrativa, luminosa e cromatica. Protagonista, in primo piano, «una festosa galleria di tipi umani», ritratta con poetico realismo. A incontrare per primo lo sguardo del visitatore è, dunque, «un popolo –per usare le parole di Barbara Mazzoleni, coordinatrice del progetto- di nomadi, pastori, madri, bimbi, cani, cavalli, bauli, anfore, strumenti musicali, epidermidi morbide, stoffe increspate e dai colori brillanti». Il momento cruciale dell’evento, così come narrato nell’«Esodo», è posto, invece, «su un piano più arretrato, scandito -per usare le parole di Mauro Zanchi- dal duplice gesto del braccio destro di Dio e di Mosè, proteso in direzione delle acque, che si stanno richiudendo sull’esercito del faraone».
Il restauro della tela di Luca Giordano, che vede alla direzione tecnico-scientifica b>Amalia Pacia della Soprintendenza ai beni storici e artistici di Milano, si trasformerà, grazie al cantiere aperto a Santa Maria Maggiore, in opportunità conoscitiva e didattica per il pubblico e le scuole, che potranno non solo scoprire come si riporta a nuova vita un capolavoro d’arte, ma anche fruire dell’opera, di solito collocata a circa 12 metri di altezza, a distanza ravvicinata. L’atelier sarà sempre aperto il sabato e la domenica (nei giorni feriali compatibilmente con le operazioni conservative in atto); in coincidenza con le fasi più significative dell’intervento, interamente documentato dal sito www.fondazionemia.it (sul quale saranno raccolte anche le schede e i disegni dell’iniziativa «Artista anche tu con Luca Giordano», rivolta ai più piccoli), saranno, inoltre, organizzate visite guidate gratuite.
Dal punto di vista strutturale, l’intervento conservativo si preoccuperà di eliminare i due grossi «spanciamenti» nella parte inferiore della tela e di pulire la «pelle» del dipinto, con un’operazione che rimuoverà il vecchio film di protettivo, ormai scurito e ingiallito, tanto da rendere difficile una corretta lettura dei dettagli e della potenza coloristica e luminosa che hanno reso celebre Luca Giordano.
La pulitura sarà guidata da uno studio preliminare e da indagini diagnostiche, condotte con metodologie differenti e fra loro complementari. La tecnologia video-microscopica Zeiss, di ultima generazione, consentirà, per esempio, al restauratore di avere il massimo controllo nell’interazione con la superficie pittorica e, allo stesso tempo, di studiare, in maniera approfondita, il modus operandi dell’artista partenopeo, per arrivare anche a conoscere con quali pigmenti componeva la sua brillante tavolozza. Una tavolozza, che risente delle assonanze coloristiche dei maestri veneziani e che fa proprio il senso luministico della scuola caravaggesca.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Reading del cantiere aperto. Foto: Nello Camozzi; [fig. 2] Luca Giordano, «Il passaggio del Mar Rosso», 1681. Bergamo, Basilica di Santa Maria Maggiore



Informazioni utili
«Luca Giordano. Restauro in diretta». Basilica di Santa Maria Maggiore, piazza Duomo - Bergamo Alta. Orari: lunedì-sabato 9.00–12.30 e 14.30– 18.00; domenica 9.00–13.00 e 15.00–18.00 (l’opera in restauro sarà sempre visibile il sabato e la domenica; nei giorni feriali il cantiere di restauro sarà aperto compatibilmente con le operazioni conservative in atto). Ingresso gratuito. Sito web: www.fondazionemia.it. Informazioni e prenotazioni visite guidate: tel. 035.211355 o info@fondazionemia.it. Fino al 31 ottobre 2012.

mercoledì 25 aprile 2012

A Venezia, sulle tracce del giovane Tiepolo

Condizione difficile quella di chi si ritrova in sorte come padre un genio. Ma Giandomenico Tiepolo (1727-1804), figlio dell'ineguagliabile Giambattista Tiepolo (1696-1770), il grande pittore del Settecento al cui «miracoloso pennello» si devono alcuni tra i più noti cicli decorativi che glorificano, nelle residenze di tutta Europa, i potenti del tempo, seppe «fare di necessità virtù». L’artista, nipote dei vedutisi Francesco e Gianantonio Guardi, rinunciò, infatti, alla soluzione più ovvia -scegliere una professione differente da quella paterna- e decise di intraprendere la strada della pittura, copiando diligentemente ogni schizzo del padre e assimilandone così perfettamente la cifra stilistica, tanto da rendere talvolta difficile distinguere le rispettive mani nelle opere che videro entrambi al lavoro.
Lo stretto rapporto con il genitore, che Giandomenico non mancò di coadiuvare nella realizzazione di importanti imprese decorative come quelle della residenza di Carlo Filippo Greiffenklau, principe vescovo di Würzburg, e del Palazzo Reale di Madrid (1762-70), dove venne dipinta la «Glorificazione della Spagna» per re Carlo III Borbone, non deve, però, trarre in inganno.
«Tiepoletto» (la definizione, affettuosa, è dell'erudito Francesco Algarotti) fu sì deferente al modello paterno, ma seppe anche ritagliarsi una propria autonomia pittorica, purtroppo riconosciutagli dalla critica solo in epoca recente, quanto meno a partire dal 1941, quando Antonio Morassi restituì alla sua mano gli affreschi conservati presso la foresteria della villa Valmarana di Vicenza. Un’opera, questa, databile al 1757, che viene considerata oggi uno dei grandi capolavori di quel secolo a livello europeo, con la sua magnifica serie di raffigurazioni sulla vita dei contadini e sulle passeggiate dei nobili, con le fantastiche immagini di vita orientale e del «Mondo novo».
A «volare con le proprie ali» -memore della lezione del padre, ma interessato più alla «commedia» umana, alla tradizione goldoniana, che al dramma eroico- Giandomenico iniziò, in realtà, giovanissimo. Lo documenta chiaramente la sua opera prima, la Via Crucis dell'Oratorio del crocifisso nella chiesa di san Polo, a Venezia, realizzata appena ventenne, nel biennio 1747-1749. Un’opera, questa, della quale il compianto Adriano Mariuz, uno dei più grandi studiosi novecenteschi dei Tiepolo, sottolineò la straordinaria originalità compositiva, caratterizzata da un ritmo narrativo estremamente serrato e di intensa drammaticità, lontano dalla retorica sfavillante di Giambattista.
In questo ciclo aurorale, che dal 2003 ha un nuovo allestimento grazie al lavoro del restauratore Paolo Marzi, il modellare figurativo di Giandomenico ha, infatti, «il carattere del reportage, della cronaca che registra i fatti in coincidenza con il loro svolgersi»; appare, inoltre, evidente nelle quattordici Stazioni tiepolesche l'osservazione attenta del comportamento umano, costante di tutta la produzione successiva dell'artista. Un’attenzione che, qui, trova la sua massima espressione nella partecipazione emotiva della folla alla tragica vicenda del Cristo e alla sua lenta andata al Calvario. Gli schizzi preparatori di questi lavori, conservati presso i Musei civici veneziani, in seguito alla donazione di Lorenzo Gatteri (trecentododici le carte dell’intera famiglia Tiepolo custodite in Laguna, alcune delle quali vergate su entrambi i versi), dimostrano, poi, che i soggetti da raffigurare furono oggetto di uno studio quasi maniacale da parte di Giandomenico, che si concentrò principalmente sulla rappresentazione delle parti anatomiche considerate più difficoltose da trasporre sulle pareti come mani e piedi, e sulla resa delle luci e delle ombre. Interessanti per conoscere l’arte del giovane Tiepolo sono anche gli affreschi della villa di Zianigo, splendido ciclo pittorico che venne strappato dalla sua collocazione originaria nel 1906 e che sfuggì al pericolo della dispersione nel mercato antiquario grazie alla lungimiranza del Municipio di Venezia che, dal 1908, ne iniziò l'acquisto per conto dei locali Musei civici.
Questi lavori per la casa del Miranese, oggi conservati negli spazi della veneziana Ca’ Rezzonico, possiedono almeno due elementi di straordinarietà: sono stati prodotti in un lungo arco di tempo che va dal 1757 al 1797, e hanno la rara caratteristica di non essere stati realizzati dal pittore per un committente, ma per se stesso e in assoluta libertà di ispirazione. Gli affreschi, sottoposti nel 2000 a una attento restauro conservativo da parte di Ottorino Nonfarmale, sono, dunque, importantissimi strumenti di studio per cogliere lo svilupparsi dell'arte di Giandomenico e il suo constante interesse per il mondo contemporaneo. Lo provano inequivocabilmente i manierati spaccati di vita quotidiana de «Il mondo novo», con le sue passeggiate galanti e i suoi giochi di classe, dai quali emerge chiaramente la capacità corrosiva di rappresentare in chiave grottesca la società del tempo. Ma lo documentano anche le meravigliose scene dedicate alla vita di Pulcinella, il goffo personaggio in bianco e nero della Commedia dell'arte che tenne compagnia all'artista fino alla sua morte, quasi un doppio dell'uomo comune, quintessenza del vivere quotidiano e amara raffigurazione della risibilità della Storia.
La celebre maschera napoletana è, infatti, anche la grande protagonista del ciclo «Divertimento per li regazzi», un album originariamente di centoquattro disegni, smembrato tra più proprietari nella vendita all'asta che si tenne a Parigi nel 1921. In questi lavori -alcuni dei quali furono esposti alla Fondazione Cini di Venezia nel 2004, in occasione del duecentesimo anniversario della morte dell’artista- i riflettori vengono puntati sulla vita ridicola dell'antica maschera della commedia «all'improvviso», Pulcinella, qui moltiplicato pirandellianamente in un popolo, così da poterne evocare la vita di ogni uomo: «al solo scopo, si direbbe, di svelarne –dichiarò Adriano Mariuz– «tutta la comica assurdità».
Il capriccio, l'ironia, il gioco e l'umorismo velato da una lieve malinconia sono le corde fatte vibrare dal giovane Tiepolo anche negli affreschi di villa Valmarana di Vicenza o, per rimanere a Ca’ Rezzonico, in «Minuetto in villa» (1791-1793) e «Passeggiata» (1791-1793). Opere, queste, emblematiche di una stagione pittorica, nella quale dominò la raffigurazione di cicisbei dalle parrucche incipriate o dalle lunghe code di cavallo, cortigiane dai modi frivoli e vacui, dame dalle smisurate cuffie piumate e fronzute, contadini goffamente agghindati nei loro abiti campagnoli, figurine comiche e inermi, dai cui gesti si avverte inconfondibile la nota struggente degli addii.
E' nella «smagliante partitura segnica» di questi ultimi lavori sui protagonisti del tempo e su Pulcinella, che vibra con più forza il sorriso beffardo dell'autore nei confronti dell'intera società contemporanea, della quale viene tracciata, con acuto spirito d'osservazione e fluente brio narrativo, una cronistoria fatta di esseri grotteschi. Giandomenico si fa così testimone disincantato di una società morente e tuttavia inconsapevole della propria fine. Omaggia un'epoca che sta per salutare il palcoscenico della Storia, per lasciare il passo alla Rivoluzione francese e ai suoi ideali. Un’epoca che poteva specchiarsi in Pulcinella, in quella maschera dal «ghigno indecifrabile fra il riso e il pianto», ignara e indifferente ai presagi di un Mondo Nuovo alle porte.


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Giandomenico Tiepolo, «Pulcinella innamorato», 1797. Affresco strappato, cm. 196 x 147. Venezia, Ca’ Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Camera dei Pulcinella. Inv: Cl. I n. 1751; [fig. 2] Giandomenico Tiepolo, «L'altalena dei Pulcinella», 1783. Affresco strappato, cm. 200 x 170. Venezia, Ca' Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Camera dei Pulcinella. Inv: Cl. I n. 1753 a; [fig. 3] Giandomenico Tiepolo, «Minuetto in villa», 1791-1793. Affresco strappato, cm. 200 x 150. Venezia, Ca' Rezzonico-Museo del Settecento Veneziano, Villa di Zianigo-Portico. Inv: Cl. I n. 1743; [fig. 4] Giandomenico Tiepolo, particolare della «Via Crucis», 1747-1749. Venezia, Chiesa di San Polo.



Informazioni utili
Via Crucis di Giandomenico Tiepolo. Chiesa di San Polo (Oratorio del crocifisso), Campo S. Polo, 2102 – Venezia. Orari: lunedi-sabato, ore 10.00-17.00, domenica chiuso. Ingresso: € 2.50. Informazioni: tel. 041.2750462, info@chorusvenezia.org. Sito internet: www.chorusvenezia.org .
Gli affreschi di Giandomenico Tiepolo dalla villa di Zianigo. Ca' Rezzonico, Dorsoduro, 3136 - Venezia. Orari: dal 1° aprile al 31 ottobre, ore 10.00–18.00 (biglietteria: ore 10.00–17.00); dal 1° novembre al 31 marzo, ore 10.00–17.00 (biglietteria: ore 10.00 – 16.00), chiuso martedì,il 25 dicembre, il 1° gennaio e il 1° maggio. Ingresso: intero € 8,00; ridotto € 5,50. Informazioni: tel. 041.2410100. Sito internet: http://carezzonico.visitmuve.it.

martedì 24 aprile 2012

Wolfgang Alexander Kossuth e l’arte sacra

«La pittura, la scultura, la letteratura e la musica sono molto più vicine l'una all'altra di quanto generalmente si creda. Esprimono tutte la gamma dei sentimenti dell'animo umano nei confronti della natura». Queste parole dell'impressionista August Rodin ben definiscono la ricerca espressiva di Wolfgang Alexander Kossuth (Pfronten, 1947- Milano, 2009), artista tedesco al quale Città della Pieve dedica una piccola, ma raffinata mostra negli spazi del Museo civico diocesano di Santa Maria dei Servi.
Lo scultore, la cui opera «Maternità» è simbolo Unicef presso la Repubblica di San Marino, ha, infatti, sempre realizzato opere plastiche di suggestiva bellezza, nelle quali ha riversato le proprie conoscenze del mondo antico e la straordinaria sensibilità musicale, frutto degli studi di violino, composizione e direzione d'orchestra, condotti tra Napoli e Milano negli anni Settanta, e che, nel giro di pochi anni, lo portarono addirittura sul palco del teatro alla Scala.
Hanno avuto così origine lavori di elevata maestria tecnica e di accurata attenzione al particolare, che non solo sono un vero e proprio omaggio alla bellezza della figura umana e alla grazia evanescente dei movimenti del corpo, ma che sono anche un atto d’ossequio alla tradizione scultorea dell'antica Grecia. Basti pensare a opere come il raffinato «Adone» (2002), i sensuali «Dafne e Apollo» (2002), l'imponente «Salomè» (1992) e lo struggente «Giobbe» (1998), raffiguranti eroi dell'Antico Testamento e miti dell'Olimpo ellenico, o a lavori in bronzo, terracotta e resina dedicati a personaggi della nostra contemporaneità, quali i busti di Mario Soldati (1981), Alessandra Ferri (1994) e di Giorgio Strehler (2000), nonché la scultura a figura intera di Roberto Bolle (2003).
Come ben documenta la monografia pubblicata nel 2002 dalla milanese Skira, al cui interno sono presenti saggi di Michael Engelhard, Vittorio Sgarbi e Mario De Micheli, molte sono, poi, le opere di Wolfgang Alexander Kossuth che rendono omaggio alla danza classica. E’ il caso di «Minuetto» (1995), «Emanuela con la sfera» (2002) e «Ginnasta» (1993), ma anche di «Innamorata» (1994), «Maternità» (1992) e «Lettura» (1994), tutte figure della nostra quotidianità che evocano per la loro leggiadria la postura delle ballerine.
In questi lavori, nei quali compaiono spesso aggraziati corpi femminili e virili nudi maschili, si ravvisa un messaggio ricco di pathos, dove gioia, amore, pietà, lussuria e dolore vengono manifestati in chiave ora estatica ora sensuale, sempre intima e raccolta.
L’artista tedesco offre, dunque, ai nostri occhi vere e proprie poesie della forma, sinfonie della materia. A questa lettura non si sottraggono le opere sacre esposte a Città della Pieve per iniziativa dell’assessore Maria Luisa Meo, di Valerio Bittarello e di Marco Possieri, operatori culturali e tecnici che si sono avvalsi per l’allestimento della preziosa collaborazione della moglie dell’artista, Giuliana Alzati.
La mostra, visibile fino a domenica 3 giugno, presenta, nello specifico, due gruppi scultorei in resina, «La Pietà» (1998) e «Maria Maddalena sotto la croce» (1997), posti suggestivamente in dialogo con gli spazi dell’ex chiesa di Santa Maria dei Servi, costruita nella seconda metà del XIII secolo e rinnovata in stile barocco tra XVII e XVIII secolo. Una chiesa, al cui interno sono custoditi, sopra l’altare maggiore, un’antica «Pietà» di origine nordica e, nella cappella a destra dell’entrata, «La deposizione dalla croce», pregevole affresco del Perugino.
La mimica dei corpi di questi due lavori -esposti anche a Torino nella mostra «Il sepolcro vuoto», proposta in occasione dell’ostensione della Sacra Sindone- esprime forza e dolore, ma la dolcezza dei gesti e la purezza della resina bianca trascendono questo forte sentimento in una rappresentazione di bellezza assoluta. Ne «La Pietà», la sofferenza non si delinea dai volti delle due Marie, nascosti allo sguardo del visitatore, ma dalla linea curva dei loro corpi, che sembrano portare sulle spalle tutto il male del mondo. Nell'altra opera esposta, Maria Maddalena ci appare addirittura raggomitolata su stessa, tanto è insopportabile il dolore che sta provando. La donna è ritratta ai piedi della croce, stretta nel proprio strazio, ma ugualmente legata a Colui che l'ha salvata. Il capo piegato del Cristo e il braccio di lei si tendono l’uno verso l’altro e questo gesto ha una tenerezza e una forza tale che chi guarda non può non partecipare al loro silente «dialogo». Un dialogo che riporta alla mente le parole di Platone: «L’arte è espressione della bellezza, e la bellezza è lo splendore della verità».


Didascalie delle immagini
[fig. 1] Wolfgang Alexander Kossuth, «La Pietà», scultura in resina, 1998; [fig. 2] Wolfgang Alexander Kossuth, «Maria Maddalena sotto la croce», scultura in resina, 1997; [fig. 3] Pietro Vannucci detto il Perugino, particolare dell’affresco «La deposizione dalla croce», 1517



Informazioni utili
Sculture sacre di Wolfgang Alexander Kossuth. Museo civico diocesiano di Santa Maria dei Servi, via Beato Giacomo Villa – Città della Pieve (Perugia). Orari: martedì-domenica, 9.30-12.30 e 15.30-18.30. Ingresso (comprensivo della visita al museo): € 3,00. Info: tel. 0578.299375 e promopieve@cittadellapieve.org. Fino a domenica 3 giugno 2012.

lunedì 23 aprile 2012

Henri Cartier-Bresson, uno sguardo sul Novecento

E’ stato il maestro del «momento decisivo», ma anche l’«occhio del secolo». Stiamo parlando di Henri Cartier-Bresson (Chanteloup-en-Brie, 22 agosto 1908 – L'Isle-sur-la-Sorgue, 3 agosto 2004), fotoreporter al quale Torino rende omaggio con un’ampia retrospettiva antologica allestita, per volontà di Silvana editoriale e grazie alla collaborazione con la Fondazione Henri Cartier-Bresson e con Magnum Photos, nei prestigiosi spazi di Palazzo Reale.
 Centotrenta fotografie in bianco e nero, scattate fra i primi anni Trenta e la fine degli anni Settanta, puntano i riflettori su uno dei più appassionati e intelligenti testimoni di quello che Eric J. Hobsbawm ha definito il «secolo breve». Dalla seconda guerra mondiale alla rivoluzione cinese, dalla guerra civile spagnola all'assassinio del Mahatma Gandhi, da Marilyn Monroe a De Gaulle, da Che Guevara a Picasso: sono, infatti, pochi gli avvenimenti o i grandi della storia che, a partire dagli anni Trenta, sono sfuggiti all'obbiettivo di Henri Cartier-Bresson e della sua inseparabile Leica.
 Nato il 22 agosto 1908 a Chanteloup, un villaggio alle porte di Parigi, da una famiglia alto-borghese dell'industria tessile, il fotografo noto per aver fondato, con Robert Capa e David «Chim» Seymor, la Magnum Photos si interessa fin da ragazzo all'arte, e in particolare alla pittura, grazie a uno zio, allora considerato una sorta di padre spirituale. Diventa allievo di Jaques-Emile Blanche e di André Lhote. Frequenta i caffè della capitale francese, partecipando alle discussioni dei surrealisti. Nel 1930, dopo un viaggio in Costa d'Avorio, decide di abbandonare pennelli e colori per la fotografia. Così, anni dopo, spiegò la sua svolta: «L'avventuriero che è in me si sentì obbligato a testimoniare con uno strumento più immediato di un pennello le ferite del mondo».
 Da quel momento, Cartier-Bresson, l'uomo che Jean-Clair ha definito come «l'occhio più giusto che la fotografia abbia mai rivelato», ha percorso il pianeta in lungo e in largo, riempiendo il suo «diario di bordo» non con le parole, ma con le immagini. Ai primi anni Trenta risale il suo viaggio alla scoperta del sud della Francia, della Spagna, dell'Italia e del Messico, prima tappa di un lungo itinerario a caccia di sguardi, volti, attimi che non ritornano. La curiosità insaziabile che caratterizzerà tutta la sua carriera lo conduce, poi, negli Usa, dove nel 1935 lavora per il cinema con Paul Strand.
Tornato in Francia, Cartier-Bresson continua, per qualche tempo, a lavorare per la «settima arte» con Jean Renoir e Jaques Becker, ma nel 1933 un viaggio in Spagna gli offre l'occasione per realizzare le sue prime grandi foto di reportage. Un genere, questo, nel quale l’artista di Chanteloup-en-Brie ha avuto modo di mettere in atto la sua poetica del «kairòs», la sua celebre filosofia del «momento decisivo», una filosofia che ne ha fatto il maestro del carpe diem fotografico. Nasce così uno stile inimitabile di documentazione della realtà, che immortala un momento qualsiasi. Un momento rubato, «preso in trappola», colto all'insaputa dei suoi stessi attori. Ma un momento che è essenza di una situazione e della stessa vita. Un momento che è espressione di uno stato d'animo, o -come diceva il «genio francese della fotografia»- è «l'unione dell'istante e dell'eternità».
Chiamato alle armi nel 1939, Cartier-Bresson viene fatto prigioniero dai tedeschi e rimane in un campo di concentramento in Germania dal 1940 al 1943. Dopo trentacinque mesi di prigionia e due tentate fughe, riesce ad evadere e con il gruppo clandestino Mnpgd fa ritorno a Parigi, dove -fra i primi- ne fotografa la Liberazione. Finita la guerra si dedica nuovamente al cinema e dirige il film «Le Retour», documentario sul ritorno dei prigionieri francesi dai «campi dell'orrore». Nel 1946 è, ancora, negli Stati Uniti, dove fotografa soprattutto per la rivista «Harper's Bazaar». Qui, l'anno successivo, al Museum of  Modern Art di New York, viene allestita, a sua insaputa, una rassegna «postuma»: si era diffusa la notizia che fosse morto durante la guerra. Ma il fotografo, che ci ha lasciato l'immagine di uno Chagall dallo sguardo «fanciullo» tra i fiori di casa e quella di un Beckett che sembra una scultura di Giacometti, c'è e aiuta il museo americano a completare l'allestimento. E' la definitiva consacrazione.
 Il 1947 passerà, però, alla storia soprattutto per un altro evento importante: insieme ai suoi amici Robert Capa, David «Chim» Seymour, George Rodger e William Vandivert, Cartier-Bresson fonda la Magnum Photos. La cooperativa creata da quelli che lo stesso fotografo definì come un «gruppo di avventurieri mossi dall'etica», con la convinzione che la fotografia può essere «visione», una visione tanto speciale quanto universale della realtà, e che la paternità artistica di un'immagine va tutelata era destinata a diventare la più importante agenzia fotografica del mondo. Nello statuto c'è la risoluzione etica di documentare la realtà contemporanea, una risoluzione che era l'assioma dell'operare di Cartier-Bresson: «si deve fotografare sempre nel grande rispetto del soggetto e di sé stessi» o, ancora, «fotografare: è porre sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore. È un modo di vivere».
 Dal 1948 al 1950 il maestro francese viaggia in Estremo Oriente, tra India, Birmania, Pakistan e Cina. Documenta la vita quotidiana delle persone. Coglie con il suo obbiettivo donne e bambini durante gli ultimi giorni del Guomindang a Pechino, nel 1949. Nel 1952 si dedica a un'altra impresa: pubblica «Images a la sauvette», una raccolta di sue foto, con copertina di Henri Matisse, che ha una vasta eco internazionale. Nel 1955 viene inaugurata la sua prima grande retrospettiva, al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, una mostra che farà poi il giro del mondo.
 Dopo una serie di viaggi a Cuba, in Messico, in India e in Giappone, a metà degli anni Sessanta, Cartier-Bresson comincia a mostrare insoddisfazione nei confronti del suo lavoro, fino ad arrivare a distruggere alcune immagini. Nel 1966 abbandona la Magnum da lui stesso fondata, deluso soprattutto dalla sempre più imperante commercializzazione della fotografia, e ritorna al suo primo amore, al disegno e alla pittura, convinto -come lo è sempre stato- di essere un «fotografo improvvisato» e un «grande disegnatore misconosciuto». Stranezze dei grandi, perché è innegabile che Cartier-Bresson sia stato il padre del fotogiornalismo e della fotografia cronachistica d’arte, con i suoi scatti dalla perfetta armonia formale, frutto non solo di una grande pazienza, ma anche di una saggia discrezione, che non lo faceva mai irrompere sulla scena da fotografare, per non interferire con gli accadimenti.
 «Per quel che mi riguarda -spiegò il maestro francese, durante la sua lunga vita- fare foto è un mezzo per capire che non può essere separato dagli altri mezzi di espressione visiva. È un modo di urlare, di liberarsi, non di provare o far valere l'originalità di qualcuno. È un modo di vita». «Il mio unico segreto – dichiarò un'altra volta– è quello di prendermi il tempo di vivere con la gente e poi di dimenticarmi di me stesso». Cartier-Bresson amava il mondo e il mondo lo amava.
Le sue immagini sono diventate icone del nostro immaginario collettivo. La sua Leica è stata una sorta di bloc notes per ‘appuntare’ scampoli fugaci di vita da lasciare all'eternità, perché -si sa- l'uomo muore, l'arte rimane. Ecco così foto come quello dei due giovani che si baciano al tavolo di un Cafè parigino o quello di una coppia che si abbraccia a Times Square la notte di Capodanno o, ancora, quello di un «Che» straordinariamente sorridente. Scatti che rimarranno, per sempre, nella nostra Storia.

Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Henri Cartier-Bresson, «Derrière la Gare Saint-Lazare», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos [fig. 2] Henri Cartier-Bresson, «Belgium. Brusseles», 1932. © Henri Cartier-Bresson / Magnum Photos 


 Informazioni utili 
 Henri Cartier- Bresson. Photographe. Palazzo Reale, piazzetta Reale, 1 - Torino. Orari: martedì-domenica 9.30 - 18.30 (ultimo ingresso: ore 18.00); chiuso il lunedì; la mostra resterà aperta nelle giornate del 25 aprile, del 20 aprile e del 1° maggio. Ingresso: intero € 6,00, ridotto € 4,00. Informazioni: tel. 011.4361455. Fino al 24 giugno 2012.

Milano diventa «Piano City»

Si preannuncia come uno degli appuntamenti culturali più attesi di questa primavera la straordinaria tre giorni di «Piano City Milano», iniziativa promossa dal Comune di Milano, in co-produzione con Ponderosa Music&Art e Accapiù, grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo ed Edison, e con la collaborazione di Milano Civica Scuola di Musica - Fondazione Milano.
La manifestazione, in programma da venerdì 11 a domenica 13 maggio, arriva all’ombra della Madonnina, dopo il successo dell’omonima manifestazione berlinese, nata da un’idea del pianista Andrea Kern e tenutasi nell’ottobre 2010.
 Oltre cento i concerti di pianoforte che si alterneranno sulla scena milanese. Sono previste esibizioni in piazze, biblioteche, ospedali e giardini dell’intera città, dal centro alla periferia, ma anche house concerts in abitazioni private (aperte al pubblico) ed eventi speciali con grandi nomi della musica, come Ludovico Einaudi, Danilo Rea, Davide Cabassi, Antonio Ballista, Bruno Canino, Michele Campanella, Enrico Intra, Hauschka e Francesco Grillo.
«Con la sua forma del tutto inedita, «Piano City» è un evento pensato per un pubblico vasto ed eterogeneo; una manifestazione –si legge nella presentazione- capace di offrire nell’arco di un intero weekend, un modo non convenzionale di vivere e ascoltare la musica, di riscoprire la città e di condividere la cultura». Fondamentale per la realizzazione del progetto, che ha avuto un suo «Preludio» lo scorso dicembre alla Caserma Magenta, è la collaborazione tra i cittadini, che apriranno le porte delle proprie case, e istituzioni e imprese, come Intesa Sanpaolo ed Edison, che metteranno a disposizione i propri spazi per concerti, partecipando, quindi, attivamente alla realizzazione del progetto. Edison aprirà, per esempio, le porte della storica sede di Foro Bonaparte 31: la musica sarà così, per una sera, la regina indiscussa della Sala azionisti, spazio nel quale un tempo i milanesi si recavano a pagare le bollette della luce. Stesso discorso vale per Intesa Sanpaolo, che veicolerà la manifestazione per far conoscere il suo «Progetto Cultura», ospitando un concerto nelle sale delle Gallerie d’Italia, il nuovo museo milanese di piazza Scala, al cui interno sono conservate oltre duecento opere, da Canova a Boccioni.
 Centro di riferimento della manifestazione sarà la Rotonda della Besana, luogo dove si terranno numerose iniziative, fra le quali i «Piano Kids» per i più piccoli, proiezioni di film e laboratori di meccanica del pianoforte. A questi si affiancheranno una serie di eventi speciali: da «Piano Night», un’intera serata dedicata al pianoforte con un susseguirsi di iniziative ed eventi culturali, a «Piano Battle», sfida a suon di musica tra due grandi compositori e pianisti.
  Villa Necchi, dimora del Fai, sarà, invece, scenario di «Piano Marathon», l’esecuzione collettiva di Vexations di Eric Satie, una straordinaria e misteriosa composizione -che ebbe la sua prima esecuzione nella New York underground negli anni ’60- in cui lo stesso tema viene ripetuto fino a 840 volte impegnando i pianisti per dodici ore.
 «Piano City» vuole, quindi, essere un forte messaggio rivolto a tutti i milanesi: «un invito – si legge nella presentazione- alla partecipazione collettiva, a una manifestazione culturale che rappresenta uno stimolo nel condividere spazi ed esperienze, anche in maniera semplice e aperta». Una voglia di città viva, racchiusa nello slogan «Cultura Chiama Cultura», a simboleggiare la possibilità di trovare rinnovate modalità di fruizione e di condivisione della cultura. Pianisti professionisti, ma anche insegnanti e semplici amanti del pianoforte, selezionati attraverso Internet, si esibiranno in questa tre giorni a suon di musica classica, jazz, swing e pop, che si annuncia imperdibile per tutti gli amanti delle sette note.


 Didascalie delle immagini 
[fig. 1] Particolare di un pianoforte; [fig. 2] Un momento di spettacolo a «Piano City Berlino»; [fig. 3] Un momento di spettacolo tenutosi a dicembre in occasione del Preludio di «Piano City Milano» 
[Le foto sono state messe a disposizione da Alessandra de Antonellis, uno degli addetti stampa di «Piano City Milano»]


Informazioni utili 
«Piano City Milano». Quando: venerdì 11, sabato 12 e domenica 13 maggio 2012. Cosa: una tre giorni evento con oltre 100 concerti di pianoforte diffusi in tutta la città. Dove: a Milano, nelle case private e in diversi luoghi simbolo della città. Sito ufficiale: www.pianocitymilano.it.

sabato 21 aprile 2012

Due «soffi» d’arte di Christiane Löhr per il Fai

Peli di cane, crini di cavallo, denti di leone, fiori di bardana, edera, cardo selvatico, erbe indiane e semi di agrimonia. Non stiamo parlando di una pozione magica, ma dei materiali che Christiane Löhr (Wiesbaden, 1965) utilizza per realizzare le sue sculture: piccole e raffinate installazioni organiche che rimandano a oggetti quotidiani o architettonici.
E' il caso anche di «Drei Quader (Tre cubi)» e «Bogenform und kleine Erhebung (Forma d’archi e piccola elevazione)»: le due opere dell’artista tedesca, entrate nei mesi scorsi nella collezione permanente di Villa Panza, la residenza varesina del Fai – Fondo per l’ambiente italiano, dopo essere state esposte, durante l’estate 2010, nella mostra temporanea «Dividere il vuoto».
In questi lavori minimalisti, collocate in dialogo con le opere di Ford Beckman, si ravvisa una volontà di ri-creazione della natura. Una volontà che è, da sempre, la cifra stilistica di Christiane Löhr: semi, piante, crini di cavallo e fiori assumono, infatti, nella sua opera nuova vita; vengono trasformati in realtà della nostra quotidianità come contenitori, calici, boschetti, costruzioni templari o gioielli.
La similitudine tra forma e oggetto, suggerita dal titolo delle opere, è in realtà molto vaga e finisce per perdere importanza di fronte alla modalità creativa, all’eccezionale manualità dell’artista tedesca, che oggi vive tra Colonia e Prato.
Christiane Löhr, allieva di Jannis Kounellis a Düsseldorf, non altera, infatti, i materiali organici che usa per le proprie opere. Li assembla e li innesta tra di loro senza far uso di collanti o di anime di ferro, ma tenendo conto della geometria interna della forma dei semi e dei fiori.
Nascono così costruzioni leggere e fragili, impalpabili e delicate meraviglie architettoniche, microcosmi raffinatissimi e complessi, con i quali è possibile stabilire unicamente un rapporto visivo poiché il tatto le disperderebbe. Ed è proprio in questa evanescenza e precarietà che sta il fascino e la poeticità del lavoro della giovane artista, che vanta già nel proprio curriculum una partecipazione alla Biennale di Venezia, quella del 1999 curata da Harald Szeemann, e numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali una borsa di studio per la residenza alla Cité Internationale des Arts (Parigi) e una per il soggiorno in India con il Daad, entrambe del 2000.
Villa Panza diventa, dunque, una tappa per conoscere la ricerca analitica della Löhr sulla forza vitale e misteriosa della natura, sul suo mondo segreto e sulla varietà delle sue espressioni. Una ricerca che assume connotati lirici e poetici, creando  architetture impalpabili, facilmente ascrivibili al panorama interiore, alla nostra emotività e affettività.
«Le opere di Christiane Löhr trasmettono il valore di ancestrali gesti primordiali che sono tipicamente femminili ma soprattutto globali, cioè comprensibili da tutti, anche da culture profondamente diverse da noi»: ha dichiarato il critico Germano Celant. Un soffio di vita sembra animare, dunque, crini di cavallo, denti di leone e fiori di bardana, regalando a chi osserva questo spettacolo della natura, estraneo alla normale temporalità dei cicli naturali, un senso di calma e serenità.

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Christiane Löhr ,«Bogenform und kleine Erhebung (Forma d’archi e piccola elevazione)»; [fig.2] Christiane Löhr al lavoro. Foto di Salvatore Mazza [Le foto sono state messe a disposizione dall’ufficio stampa del Fai]

Informazioni utili

Christiane Löhr. «Drei Quader (Tre cubi)» e «Bogenform und kleine Erhebung (Forma d’archi e piccola elevazione)».Villa e collezione Panza,piazzale Litta 1, Biumo - Varese. Orari: 10.00-18.00. Ingresso: adulti € 8,00, bambini € 3,00. Informazioni: tel. 0332.283960 o faibiumo@fondoambiente.it.Sito web: www.fondoambiente.it/beni/villa-e-collezione-panza.asp.

«Titanic», a Trieste una mostra per il centenario

Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912 avveniva una delle più grandi tragedie che la storia della navigazione ricordi in tempo di pace: il naufragio, nel corso del suo viaggio inaugurale, del transatlantico britannico «Titanic», allora la più grande nave passeggeri del mondo. Un evento, questo, che ha inciso in profondità sull’immaginario collettivo attraverso decine di libri e film che hanno rievocato il disastro che vide la scomparsa degli oltre millecinquecento passeggeri. Sono poche, invece, le testimonianze relative agli anni impiegati dalla compagnia britannica «White Star Line» per la costruzione del «transatlantico inaffondabile», di una grande imbarcazione, cioè, che potesse battere qualunque altra nave per dimensioni, comfort, lusso, sicurezza e che avesse così il dominio delle rotte oceaniche che collegavano il Vecchio continente all’America. Tra queste, una tra le più recenti è rappresentata dal volume «Titanic – dal cantiere all’oceano», scritto dal giovane ricercatore Gaetano Anania. Il libro, frutto di una passione a lungo coltivata dall’autore, racconta la vicenda del «Titanic» da una prospettiva inedita, quella di William Walsh, studente di ingegneria navale che ebbe la possibilità di documentare in un diario i lavori di costruzione della nave nei cantieri «Harland & Wolff» di Belfast. Il ricco apparato iconografico contenuto nel libro, proveniente in buona parte dal prestigioso archivio dello storico navale Maurizio Eliseo, costruisce il cuore della mostra «Titanic – dal cantiere all’oceano», allestita a Trieste, al Centro commerciale «Il Giulia». L’esposizione, curata da Claudio Luglio, raccoglie una quarantina di immagini d’epoca che raffigurano soprattutto gli operai al lavoro e le diverse fasi di lavorazione del transatlantico all’interno dei cantieri irlandesi che, per poter costruire navi di così grandi dimensioni, all’epoca subirono grandi lavori di potenziamento. «In quegli anni - racconta lo storico navale Matteo Martinuzzi - le compagnie inglesi e tedesche, ovvero le principali potenze marittime dell’epoca, si contendevano il primato delle navi più grandi lussuose e veloci, arrivando a costruire veri e propri colossi del mare. La compagnia britannica «White Star Line» progettò la realizzazione di tre transatlantici giganti da oltre 45.000 tonnellate: l’«Olympic», il «Titanic» e il «Britannic». Tutte e tre le imbarcazioni verranno ricordate come le più sfortunate navi mai esistite, con le ultime due affondate e la prima sopravvissuta ad almeno tre gravi incidenti. L’insegnamento che ci ha lasciato la perdita del «Titanic» -conclude Martinuzzi- è la sconfitta della superbia dell’uomo che credeva di aver realizzato qualcosa che la natura mai avrebbe potuto distruggere ed invece non fu così». «La mostra vuole essere un modo originale di rievocare il centenario – dichiara il curatore Claudio Luglio – in quanto la nostra attenzione è diretta a coloro che hanno contribuito alla realizzazione della nave, il più delle volte dimenticati dalle cronache e dalle opere di fiction sul «Titanic». Ma l’esposizione triestina - conclude Luglio – oltre ad avere un forte legame con una città che ha una lunga tradizione navale, intende essere anche un significativo sforzo di aprire ad iniziative culturali un luogo solitamente deputato al commercio come «Il Giulia»».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Il «Titanic» alla banchina di allestimento; [fig. 2] Le imponenti eliche del «Titanic»


Informazioni utili
Titanic – dal cantiere all’oceano. Centro Commerciale Il Giulia - galleria pianoterra, via Giulia 75/3 – Trieste. Orari: lunedì-sabato, ore 9.30-20.00 e domenica, 10.00-19.30. Ingresso libero. Fino a sabato 28 aprile 2012.

mercoledì 18 aprile 2012

«Pollock Day», un giorno per il genio dell’Action painting

Una giornata per ricordare Jackson Pollock: ecco quanto propone la collezione Peggy Guggenheim di Venezia per sabato 21 aprile 2012. In occasione del centenario della nascita dell’artista americano, considerato uno dei principali rappresentanti dell’Action painting, il museo lagunare proporrà uno specialissimo Pollock Day.
Il programma si aprirà, alle ore 11, con una conferenza sulla terrazza panoramica del museo, dal titolo «Pollock e Peggy. La fortuna critica di Jackson Pollock in Italia negli anni ’50», alla quale seguirà un aperitivo. Insieme a Luca Cerizza, curatore e critico, Giovanni Bianchi, docente di arte contemporanea all’Università di Padova, e Philip Rylands, direttore della collezione Peggy Guggenheim, verrà tracciato un profilo a tutto tondo dell'artista d'oltreoceano. Bianchi delineerà la figura del «personaggio Jackson Pollock», sottolineando l’importanza delle sue radici americane e la sua formazione a contatto con Thomas Benton (massimo rappresentante del Regionalismo americano), con l’opera dei muralisti messicani José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, e con l’attenzione posta ai lavori sulla sabbia degli indiani del West. Cerizza si concentrerà, poi, sulla fortuna critica di Pollock in Italia, dal 1948 al 1963, ovvero dalla prima partecipazione del pittore alla Biennale di Venezia, evento che costituisce anche la prima occasione in assoluto per vedere la sua opera oltreoceano, fino agli anni in cui le poetiche informali ed espressioniste-astratte cominciano a essere sostituite da nuove ricerche di matrice più ‘fredda’ e meno esistenziale. Chiuderà Rylands, parlando dello stretto legame che si creò tra Pollock e Peggy Guggenheim, sua scopritrice e prima mecenate.
La giornata proseguirà con la proiezione in loop, dalle 12.30 alle 14.30 nella biblioteca del museo, del video «Jackson Pollock» (Usa, 1951) di Hans Namuth e Paul Falkenberg: un celebre film d'artista sul pittore americano, presentato al MoMa di New York, con la colonna sonora originale di Morton Feldman, che segnò la prima rappresentazione importante della musica del compositore, allora venticinquenne.
Nel pomeriggio, il giardino del museo si trasformerà in un enorme ‘tela’ pronta ad accogliere un dripping a ‘grandezza naturale’, al quale potranno partecipare tutti coloro che vogliono sentirsi Pollock, almeno per un giorno. Alle 14.30 e alle 16 ci sarà un doppio laboratorio, aperto a grandi e piccini, dal titolo «Ciak… (pittura d') azione!». I partecipanti potranno cimentarsi nell’action painting, e potranno così esprimersi attraverso la loro personale pittura d’azione avvicinandosi al tempo stesso al pensiero creativo dell’artista.
Anche il Museum Cafè parteciperà ai festeggiamenti proponendo un omaggio culinario all’artista con il piatto «Pollock 100»: tagliolini fatti in casa in bianco e al nero di seppia con verdurine dell’orto.

Informazioni utili
Pollock Day. Peggy Guggenheim Collection, Dorsoduro 701 – Venezia. Quando: sabato 21 aprile 2012, dalle ore 11.00. Ingresso: € 12,00 (ridotto € 10.00/ € 7.00), conferenza € 5,00, laboratorio € 5.00; i soci del museo e i bambini fino ai 10 anni hanno diritto a ingresso e attività gratuiti. Prenotazione obbligatoria (i posti sono limitati) a membership@guggenheim-venice.it o tel. 041.2405440/412.

venerdì 13 aprile 2012

Brescia, in mostra «Il grande gioco» del surrealista Maurice Henry

«Non sono più capace di mettere da un lato la realtà e dall’altro il sogno […]. Preferisco restare in un vuoto galleggiante [...]. Non esiste più che un solo universo, quello del sogno, del quale possiedo tutte le leve di comando a sorpresa [...]. Donne di carne nascono con una testa di stella [...] I gigli spalancati che calmano il loro dolore ridono come bocche [...]. Ci sono attorno cavalli di piume, uccelli nelle canne dei fucili da caccia, gufi mostruosi ornati da palchi di cervi. Ci sono donne dall’occhio rosso, dalle guance di coccinella, dai piedi di smalto, da immagini perse nello schermo dei sogni, ci sono innocenti decapitati dalla corda della forca […]». E’ racchiuso in queste parole, scritte nel «Discours du rivolté» per un numero del 1927 della rivista «Le Grand Jeu», il significato della ricerca artistica di Maurice Henry (Cambrai, 1907–Milano, 1984), surrealista francese, amico di intellettuali e artisti del calibro di Pablo Picasso, Jean Cocteau, Jaques Prévert, André Breton e Albert Camus, al quale la galleria «Forma e Colore» di Brescia dedica la sua prossima mostra.
L’esposizione, intitolata «Il grande gioco» e curata da Giorgio Pajetta, riunisce molti degli esiti più significativi della produzione dell’artista, dagli esordi degli anni Venti fino alla piena maturità degli anni Settanta, offrendo un panorama completo della molteplicità delle tecniche utilizzate: dalla scultura-oggetto, alla gouache, alla tecnica mista, all’olio su tela. Sedici le opere esposte che fanno di questa piccola, ma intensa mostra, che sarà aperta da sabato 21 aprile (l’inaugurazione si terrà alle ore 18.30, alla presenza di Elda Henry), una buona occasione per accostarsi all’inesauribile e caleidoscopica creatività di uno dei maestri del gruppo artistico capitanato da André Breton, Marcel Duchamp, Salvador Dalì, Max Ernst e Man Ray, quello che -per usare le parole di Michel Boujut - «ha saputo, per primo, adattare al Surrealismo il disegno umoristico».
Maurice Henry è stato un precursore assoluto dai differenti talenti, che si esprimeva con la stessa disinvoltura nella pittura, nella scultura, nella poesia, nel disegno, nell’arte cinematografia e persino nel teatro, per il quale si occupò dell’allestimento della scenografia e dei costumi del balletto «But» di Michel Desconbay, andato in scena all’Opera di Parigi nel 1963. E’ stato un artista indipendente che nelle sue opere si è espresso come alchimista di sogni, affrancando la mente dalle convenzioni e dalle abitudini di pensiero. Sull’opera di Maurice Henry hanno scritto molti tra i maggiori poeti, intellettuali e storici del suo tempo ma due giudizi critici esprimono efficacemente il valore dell'artista. Eugène Ionesco, in una presentazione per una mostra alla Galerie Grisebach di Heidelberg nel 1962, osservava: «In Maurice Henry vi è un contenuto fatto di sogno e di angoscia; sono quadri che ci raccontano delle storie [...] Nelle sue opere vi è indiscutibilmente un'angoscia fondamentale, una paura, è il mondo del pericolo che pesa su di noi [...]. Coloro che conosceranno la pittura di Maurice Henry capiranno meglio i disegni del pittore [...] I suoi personaggi che possono apparire spiritosi, comici, umoristicamente insoliti, svelano il loro più recondito significato...sono in qualche modo gli indizi, i sintomi di un universo che ci è sempre più difficile controllare e che è pronto a sfuggirci. Forze misteriose, perché incontrollabili, aspettano solo un ordine imminente per distruggerlo, o per obbligarlo a distruggersi. Un altro universo, inconcepibilmente diverso dal nostro, è già lì, creato, pronto a sfuggirci […]" . Mentre Arturo Schwarz, che più d’ogni altro ha capito la grandezza di Maurice Henry, ha scritto : «È sorprendente che un artista di una tale statura sia stato quasi completamente dimenticato in Francia come in Italia. Penso che, paradossalmente, gli abbia nuociuto l'essere stato considerato non solo l'inventore del disegno umoristico surrealista e senza dubbio il più grande umorista francese vivente, ma anche soprattutto un poeta. La sua fama di disegnatore ha eclissato il grande e sensibile pittore che è sempre stato nonostante molti abbiano presto capito che Maurice Henry, dall’impressionate potere poetico, fu tra i più rari umoristi di oggi a meritare il nome di artista. Sicuramente egli è uno dei più grandi testimoni del suo tempo».

Didascalie delle immagini
[fig. 1] Maurice Henry, «Les mots d’amour», 1968,olio su tela, 73x92 cm; [fig. 2] Maurice Henry, «Vampire de lune», 1969, tecnica mista su cartone; [fig. 3] Henry, «Hommage a Paganini», assemblage, 50x22 cm

Informazioni utili
Maurice Henry. Il grande gioco. Forma & Colore, contrada Soncin Rotto 5/B - Brescia. Orari: martedì-sabato, ore 10.30–12.30 e ore 16.30–19.30; lunedì chiuso. Ingresso libero. Catalogo: disponibile in mostra. Informazioni: tel. 030.293064 o cell. 335.8258616. Da sabato 21 aprile (inaugurazione alle ore 18.30) a sabato 16 giugno 2012.